L’odio è una carriera senza limiti perché non trova mai il suo appagamento, nemmeno nella distruzione dell’odiato. Esso non viene dall’oggetto ma dal soggetto. È il suo male che, non potendo essere pensato, si scatena sull’altro. La tristezza della sua passione, come ricordava Spinoza, coincide con la necessità di evitare la constatazione depressiva della morte interna del desiderio. Coloro che sono immersi nella vita non hanno infatti tempo per l’odio” (Massimo Recalcati).

Con queste parole, Recalcati, psicoanalista di formazione lacaniana, esprime attraverso i social, quello che è, purtroppo, un’emozione, un movimento ormai diffuso: sui social, appunto, attraverso i cosiddetti haters, alla cassa del supermercato, nei confronti dello “straniero”, tanto sconosciuto quanto non compreso.
Ciò che accomuna tutte queste situazioni, apparentemente molto diverse tra loro, è la contrapposizione tra me e l’Altro, nel senso più ampio del termine, ciò che non sono io.
In un’epoca in cui la comunicazione ha subìto una profonda trasformazione, diventando spesso indiretta, ha lasciato spazio all’espressione della frustrazione di questo tempo, senza filtri né remore.
La distanza, l’anonimato, commenti simili “postati” da altre persone, conducono a facilmente verso l’espressione irrazionale del proprio “parere”, del proprio giudizio, nei confronti di sconosciuti, senza pensare alle conseguenze, proprio perché l’altro è lontano, irraggiungibile.

Una vita insoddisfacente dal punto di vista prima di tutto affettivo, ma anche sociale, lavorativo, non può essere vista né accettata, e si sposta l’attenzione sulle presunte mancanze o bizzarrie di uno sconosciuto, nell’impossibilità di pensare prima di scrivere, letteralmente.
Se ci fosse pensiero, infatti, sarebbe possibile sentire la propria sofferenza, la propria mancanza.
Ed è così che donne auto dichiaratesi femministe si ritrovano a fare commenti sul peso di un’attrice o una cantante; partners delusi che condividono video privati dell’amante che li ha abbandonati, e così via.

La strada verso la consapevolezza presuppone, prima di tutto, la presa di coscienza della propria insoddisfazione, della propria sofferenza, e del legame che tutto ciò ha con l’apparente perfezione che si immagina nell’altro che si vuole distruggere.
Nessuno è perfetto ed immune al dolore, ma mai come in questa epoca diviene difficile comprenderlo, proprio perché la “vetrina” che ci costruiamo mostra solo gli aspetti considerati migliori e più desiderabili, lasciando il dolore offline.

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Dott.ssa Loredana Chicco